Introduzione
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Forse questo è un libro di poesia. O forse no: prosa e poesia mi paiono sempre più indefinibili. Nel Novecento si è pressoché identificata la poesia con la lirica (ah, benedetto Croce!), a discapito degli altri generi poetici; ma ci sono poesie ben poco liriche, che so: narrative, discorsive o colloquiali, e al contrario prose che lo sono così tanto da esprimere i moti dell’animo e i sentimenti dell’autore con più intenzione e intensità di molte poesie. E allora, cosa distingue poesia e prosa?
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Una differenza è certamente questa: la poesia va a capo, la prosa no. Non è molto scientifico, ma può essere un inizio di ragionamento. L’andare a capo significa che il poeta è costretto a tacere spesso, ad interrompere con metodo il filo delle parole, anche dal mero punto di vista tipografico, che corrisponde, comunque, ad una indicazione alla voce e quindi non è poi tanto banale.
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Il prosatore può parlare e raccontare più a lungo senza dover ricorrere al silenzio. Tacerà solo col punto o forse neppure: tacerà alla fine di un paragrafo, o di un capitolo. Avrà silenzi più rari. La poesia invece è l’arte di star zitti al momento giusto. Ogni verso scritto finisce con una pausa, un’interruzione della voce, un silenzio, cioè un ascolto. Per scrivere poesia bisogna ascoltare molto, praticamente ad ogni frase, talvolta ad ogni parola (come faceva Ungaretti). Occorre ascoltare il mondo fino a ciò che si è appena scritto in quel verso, che è “mondo” come tutto il resto. Perché probabilmente il poeta non crea nulla; porta alla luce quello che c’è già.
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Anche per questo la poesia è un’arte difficile: se un poeta non sa andare a capo compromette ciò che ha da dire, deborda con la sua voce, manda all’aria un pensiero che magari prometteva bene. Per questo non amo i poeti che scrivono molto e mi sembra che la parsimonia giovi alla poesia, soprattutto ai lirici (gli epici, è chiaro, hanno bisogno di più voce, perché hanno una narrazione da realizzare). Ma forse è un mio pregiudizio.
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Comunque non so incasellare i testi di questo libro in un genere: la maggior parte di essi è nata con l’intenzione di essere poesia, ma poi non ho saputo andare a capo. Non ho saputo stare zitto, se non alla fine di ognuno di loro, non ho trovato il versus.
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Eppure ci sono fra essi pensieri che mi sembrano veri e la loro origine è autentica, cioè non appartiene a me innanzitutto. Si sono accumulati senza calcolo, durante più di dieci anni di scrittura, a latere rispetto al lavoro sulla poesia e poi sistemati secondo criteri minimamente tematici.
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A proposito di pensiero, esso non è estraneo a questi testi. Non ne approfondisco la questione, perché è troppo complessa per il luogo che questo libro vuol essere, ma mi limiterò ad esprimere l’impressione che oggi il pensiero sia eccessivamente vituperato sia dagli ultimi figli deboli dell’illuminismo, col loro tragico fraintendimento della ragione, sia dai nuovi spiritualisti e newagisti generatori di caos e basta. Semplicemente il pensiero mi sembra difficilmente separabile dal resto: dal corpo, dal reale, dalla poesia, dal cuore…
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C’è poco qui di inedito: “I bambini, il tempo”, la sezione più recente, è apparsa in parte sulla rivista “Graphie”, in parte su “clanDestino”. La sezione intitolata “Poetica” raccoglie spunti riflessivi molto liberi sul lavoro di scrittura e di lettura che continuamente e parallelamente accompagnano il fare poesia; sono usciti su “Il Rosso e il Nero” e su “La Rocca-Poesia”.
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“Diario Finto” è la sezione in prosa di “La quarta lettera” un mio primo libro del 1987, il quale per il resto conteneva poesie che mi sembrano oggi juvenilia. Le prose invece mi paiono riproponibili, senza nessuna correzione di rilievo, salvando di quel libro solo ciò che, al momento, mi sembra rileggibile.
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Per un po’ di tempo ho considerato queste prosette testi minori, privati, al confine col diario, dei frammenti, delle nugae. Ma poi ho ricordato che spesso in passato le opere che i poeti hanno considerato “minori” si sono ribellate, decidendo di diventare l’unica traccia durevole lasciata da quell’autore. Così ho smesso di tentare di definirli e ho lasciato che fossero per me il regalo che sono, sperando che lo diventino anche per qualcun altro.
I bambini, il tempo
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I bambini dicono sempre la cosa che ci spiazza, che sembra non c’entri col contesto, che viene da chissà quale dei loro imprevedibili pensieri. I bambini hanno strane reazioni, piangono quando meno te lo aspetti, sei tranquillo e creano un problema, da una minuzia, una virgola a cui nemmeno avevi fatto caso; oppure ridono e godono di inezie, hanno stupore per cose ridicole, normali fino all’irritazione, e un’accoglienza senza riserve, distinguendo però al volo onore da miserie.
I bambini sono come Dio.
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La necessità è tutto ciò che abbiamo e siamo, la totalità delle nostre fibre, la definizione di ogni respiro. E mia madre, la mia bambina, adesso non lo so cosa ama. Perché l’amore di una madre è necessario, è un per sempre chiaro, e mia madre è diventata piccola, più di mia figlia. Il tempo non passa, il tempo impazzisce. Il passare del tempo è il suo diventare matto, l’essere già stato di noi è una tremenda malattia della mente, chiodo di nulla qui in mezzo.
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Vorrei dire rinuncio come nei bellissimi sacramenti, vorrei rinunciare ad ogni dopo, ad ogni ipotesi di risoluzione. Ma tu dove sei? Il pungere della nebbia si fa fitto e non è certa la chiarità, il suo crescere cogli anni. C’erano i clienti del bar… c’era Luzi, a Cervia… un obbligo nell’inverno, come un tradimento, come l’unica possibilità che quella nebbia non fossi io.
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L’alluvione portò acqua nella cantina della scuola. L’alluvione e la neve sono bellissime, accendono i bambini che sono incontrollabili e felici. I loro padri e le loro madri no, imprecano soltanto. Ma quando il fiume sale e travolge gli stupidi orticelli dei pensionati, i penosi parchi dei Verdi, quando il fiume sale è un’altra cosa. Non rispetta la legge, non ama i piani regolatori, l’ecologia, viene e va e noi siamo felici. Ci vorrebbe un’alluvione al giorno.
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C’è un centro nell’uragano del tempo -che se ne frega e ci uccide- un cuore fatto di calma, di stasi. È mia moglie, il punto in cui il destino ha deciso di stabilirsi a casa mia, che sarebbe come un posto squallido e desolato senza di lei, senza il suo turbine di vita, senza la figlia che ha accettato di farmi. Vorrei farvi vedere quando dormono, o strillano -coppia di isteriche giocose- o il muso che sanno tenere, per questo pover’uomo in minoranza. E la grazia, come una cosa che sembra venuta da cielo in terra, a mostrare un miracolo.
17 (Anch’io nel presepe)
Io sono quello a mani vuote, che viene vergognandosi, inciampando, non solo senza niente ma ladro dei doni altrui, soprattutto quelli puri. Ma tu sei quello che si fa carne, divina compassione del mio vuoto e non solo carne, ma carne della mia carne. E tu, Madre, completa il mio vuoto, pulisci le mie braccia dall’ultima superbia, dal residuo di presunzione che mi tiene lontano dalla resa; allora avrò le mani libere, potrò tenere il tuo bambino per farti riposare, e lui sarà il mio pieno e la mia gloria.
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Due giorni in casa col morbo di Agnese da assistere e si è ammorbato tutto, i mobili hanno la febbre, il muro è sudaticcio, il frullatore tossisce e il forno a microonde starnutisce… C’è un’aria, in casa, che gronda batteri microbi germi, e un grumo stabile sulla fronte che non permette di pensare. Ma poi c’è lei, la mia maggior malattia, che guarisce tutte le altre. China la testa, gioca, dice cose favolosamente sconclusionate ed è spudorata nella sua bellezza… non siamo mai d’accordo, non ha preso un pasto senza protestare, le dà fastidio che giocattoli e oggetti della casa siano a posto… e allora? Nella sua splendida anarchia, lei è felice, sta con me e non si chiede perché sono così, perché proprio io dovevo capitarle e non un altro più loquace, più corto il naso, più fantasiose le favole… nella sua splendida anarchia, ama che io sia.
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Vorrei concretamente sentirmi, avere la prova dell’esserci. Steso sul letto chiudo gli occhi: solletico intorno alla bocca, quello lo sento, pulsazione su un labbro, caldo ai piedi. Ma è ridicolo: semplicemente sto cercando di dire io, risolvere l’unico vero problema.
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Rimarrà di noi solo il giorno. Tutta questa notte, quest’aria oleosa sulla faccia, è senza destino. Il buio è meglio che con noi muoia.
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Prima di dormire la sera, sdraiato, leggo un’oretta. Estraggo un volume dalla biblioteca e col sonno lascio dormire anche lui, sul comodino, per continuare la sera dopo. Finito quello, un altro, inseguendo un’intuizione, tracciando un percorso e per due o tre settimane i volumi si ammucchiano, finché appoggiando l’ultimo (già così distante dal primo) la catasta di libri vacilla. Allora li prendo ad uno ad uno, li risistemo guardandoli sugli scaffali e faccio a ritroso la strada dei pensieri, l’inseguimento di un’idea, la conferma o la smentita, l’incontro. Adesso quei libri non sono più solo se stessi, sono una memoria, qualcos’altro.
Poetica
1
Scrivere come di fronte ad una presenza. Cvetaeva e Pasternak: «Scrivere come se si parlasse a un altro uomo». «No! Scrivere come se si parlasse a Dio». Io aggiungo: che differenza c’è?. La poesia non riguarda la comunicazione: non è vero Jakobson. La poesia è il linguaggio dell’essere e la comunicazione non è che un conseguenza. L’essere si comunica.
2
Mi metto in ginocchio e osservo, poi alzo gli occhi. In quel momento le mani si aprono, ne escono le poesie e vanno sul libro. Non molte ma sufficienti e soprattutto dalle mani, le poesie escono dalle mani.
3
La mia poesia è una parola che viene a mancare, non silenzio; parola che si accorge di non bastare, si piega e sparisce, caos da cui talvolta, con pochissima regola e non mia, emerge un volto.
4
Scrivere alla mia età è davanti a quel nero, è il nulla, la cosa più concreta del mondo, il nulla, dove le aziende e le riviste scompaiono nella gestione. C’è solo il nulla, sfida di morsi allo stomaco, e ci sono io, posta in palio oppure così, come quel nero.
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Credi che scriva per un ordine? Credi davvero che senta cosa devo fare? E allora perché sto ascoltando e la mano sta ferma? Perché è inutile che pensi? Bisogna pregare nel dormiveglia, con parole imparate a memoria. È così che vieni.
6
Il valore della poesia inizia forse da una non-presunzione, da una dichiarazione di modestia sincera -meglio: dall’ironia. I poeti che più amo sono sempre ironici, cioè distaccati; ciò non toglie un senso quasi sacrale del loro lavoro, anzi è l’unico atteggiamento che permette di ammetterlo. In fondo il distacco è l’apertura alla possibilità, alle “mani occulte che mi intridono”, al tutto che potrebbe venirmene.
7
Eppure anche nella poesia c’è qualcosa hic et nunc. È una rifrazione del vero? Non so… ma è vero che il bisogno è quello di compagnia, sempre. Ciò che nella poesia, inconsapevolmente o no, con alcune parole mi raggiunge stupendomi, spiazzandomi, intenerendomi, è una compagnia.
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Che senso ha la ricerca del nuovo (o del ritorno all’ordine, che è la stessa cosa) nella parola? Così si approda ad una poesia difficile da giustificare, astrusa, non insegnabile. Leopardi è nuovo, e comunicabile. La parola non è nulla di nuovo. Novità stupefacenti e spiazzanti sono sempre la realtà e il suo senso, che non finisce e si rinnova.
9
Quando mi sdraio nelle pagine, voracemente le inseguo una dietro l’altra, incompiuto, parziale, il libro interminato, pedinato per tutto il giorno esattamente non so da cosa… e in quel momento potrebbe anche non succedere niente e la voglia rimanere sulla punta della vista… ma lì, in quella durata, sono autorizzato a prevedere la mia grandezza, il totale delle vaghe stelle dell’Orsa, i doganieri, le “parole piccole piccole” della letteratura.
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Con queste parole finiscono i fiori del male e inizia la carne e la luce che reca, le mie povere parole, che ieri mendicavano, adesso si sono messe a lodare. Le intenzioni sono ancora schizofreniche, si scontrano e sprecano le circostanze ma mi è stato insegnato a guardare l’orizzonte come se fosse un dipinto di Caravaggio, un messaggio, una commozione che rompe la durezza dell’istante e lo ferma.
Diario finto
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Respirare è un’arte. Il petalo delle iridi scivola come l’ottobre di vent’anni fa, quando il castagneto saliva e se scivolata e di scatto t’ho preso il braccio. Allora ti sei rannicchiata tenendoti le ginocchia con le mani e hai creduto che il mio cuore fosse una noce e te ne sei pasciuta. Da quel giorno attendo le iene che facciano a pezzi questa casa, divisa a metà come una mente. Intanto perdo tempo, faccio ridere il mondo con le mie pagliacciate e qualche volta rido anch’io, quando sono un po’ stanco e non sto attento.
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Era seduto e non smetteva di scrivere. Da trentanove anni non si alzava, non mangiava ma scriveva e lo sapeva che il momento in cui avrebbe smesso i pipistrelli si sarebbero attaccati ai suoi capelli e avrebbe mangiato la carne secca dei cadaveri e ricordato la guerra. Distrusse così i suoi figli, spese diciassette milioni di lire in carta.
9
Eccoti, alla fine, è tutta la luna che ti cerco. Eccoti, Dio mio: parola che rimbalza i tramonti. Perché è un momento che mi rotolerei sotto i tavoli per essere, nella polvere, più cane, più bestia. Perché il pugnale che tengo tra i denti si è rotto quando ho serrato questo muso troppo forte e i frammenti di acciaio mi bloccano la gola. Bloccano le urla e non posso gridare.
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Talvolta non mi accorgo che il sole da noi tramonta. Mi pare che sorga, lo confondo. Ma è chiaro che siamo a Occidente: credi infatti che ci sia qualcosa di più importante della sua sembianza? E ogni parola della sua voce è un grammo d’oro. Credi che non baratterei le più fisse delle idee, l’immutabilità dell’universo, l’eterno ripetuto in ogni minuto, con un gesto unico del suo capo? Certo che lo farei. Ogni fragile irripetibilità, che muore nell’istante in cui nasce e lascia alle spalle schegge incandescenti di rimpianto e ubbie intramontabili, pesa più di ogni Oriente.
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Se io fossi un ufficiale rastrellerei tutta la campagna intorno alla sua casa rischiando di calpestare i filini del grano, direi ai miei soldati di circondarla e attenderei il mattino. Appena esce per andare a scuola la fare catturare e portare nella mia tenda, per estorcerle un appuntamento.
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Supplico perdono ancora per due frasi: la prima torna ai suoi occhi che sorridono con la bocca e fanno un paradiso unico della sua umanità; la seconda è per le sue mani invisibili, le vesti dimesse e opache e il corpo luminoso. Se c’è infatti una parola che inanella l’ennesima pazzia alle altre nella collana che porto è questa, così guilleniana: luce.
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Finalmente svanire. Quando ne parlavo con la sedia vuota del teatro -Rota, Vivaldi a sottofondo- avrei giurato di scherzare, invece sparire non è difficile. Basta essere se stessi, dire «ecco, non mento più» e nessuna parola verrà più pronunciata, nessun movimento, più nessun corpo. Aleixandre: «Le lingue dell’innocenza/non dicevano parola» e io desidero l’innocenza di non materializzare un corpo, di trascinare lontano ogni me rumoroso.
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Il dolore assorbito dal petto dell’essere più sicuro che fosse mai apparso. E la percezione, soprattutto: qualcosa si salva e moltiplica, resiste. Un uomo ricolmo di storia è un conto in sospeso, un nodo non slacciato. Una pronuncia, due sillabe sbagliate.
39
Sono così incerti i giorni… so di essere stato quella volta che parlavi e improvvisa una carezza è calata sul tuo viso. Adesso non lo so; io non ho paura, progetto e penso, lavoro. Ma è tutto un p’o vuoto, un po’ più spento. Io sono ogni momento passato con qualcuno; sono quel pioppo e il vento che lo scuote, assieme. Rimane sempre il ponte, la strada, la cerniera… ma quanto la mia forza reggerà questa distrazione? Ricordo solo di qualcuno che mi aspettava e aveva cura di me, del mio bene. Il mio bene era qualcuno.
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Il tenero di tutto è che non mi costruirete. Ho intenzione di gettarvi, di interpretarvi al massimo con la musica, così da distrarre chi ascolta mentre leggo. Perché non bisogna dire agli uomini certe cose, bisogna dire del muschio e dei licheni, del microscopio per guardare gli insetti e di Michelangelo.