di Gianfranco Lauretano
Marino Moretti è stato un grande scrittore, soprattutto a mio parere un grande poeta. Alcune sue poesie sono talmente efficaci da essere diventate l’emblema di un’epoca, quella crepuscolare, parola che il critico Borgese trasse dalle poesie dello stesso Moretti ed usò per raggruppare tre poeti proprio all’ombra della definizione data da quell’aggettivo; degli altri due, Martini e Chiaves, nessuno legge più niente, solo Moretti resiste. Certo, l’efficacia di certi versi, come di certi slogan pubblicitari o certe frasi storiche, ha anche il suo rovescio negativo: come accade a quegli attori che, dopo aver recitato una parte per anni in una serie televisiva (pensate a Fonzie di “Happy Days”) finiscono con l’identificarsi quasi unicamente con quel personaggio e non riescono più neppure a recitare in altri lavori, una certa definizione particolarmente riuscita si appiccica addosso e sembra che l’autore non abbia fatto altro. Così accade a Moretti, ma ancora di più alla sua Cesena, il che è paradossale, dato che Moretti era di Cesenatico, come ignorano i suoi non-lettori che però conoscono il verso in questione: “Piove. È mercoledì. Sono a Cesena”. Ebbene, questo verso è ormai una maledizione, soprattutto per chi è di Cesena e scrive poesie, come accade al sottoscritto. Quante volte mi è capitato di sentirmela ripetere andando a leggere in un’altra città! Di solito infatti chi invita a presentare libri o a leggere poesie è almeno uno scrittore, un critico, un professore di lettere, un direttore di biblioteca o centro culturale, insomma, qualcuno che legge. Io arrivo, mi presento e, appena ricordo loro che sono di Cesena, ecco che scatta la citazione: “Ah, sei di Cesena? Piove. È mercoledì. Sono a Cesena” e via sorrisetti compiaciuti per la citazione. Sembra che, per colpa di Moretti, a Cesena siano stati aboliti sei giorni della settimana e ci sia un clima oceanico modello Gran Bretagna, per cui piove tutti i giorni, che poi sono tutti mercoledì; e che, se si va avanti nella poesia in questione, tutte le sorelle di Cesena si sposino con un’intera famiglia piccolo borghese, molto perbene e molto triste, davvero crepuscolare, e che un’aria di sfortuna (qui ci stava bene una parolaccia) aleggi in città sulle giovani spose, sui loro fratelli poeti e su tutta la famiglia. Ovviamente la colpa non è di Moretti, che ha scritto molto e ben altro, ma di chi si ferma solo alle antologie scolastiche.
Quando anni fa decisi di infrangere questo pregiudizio (che in maniera preoccupante si abbatteva sempre più spesso su me cesenate ad ogni trasferta) andando a leggere le altre poesie di Moretti, scoprii un tesoro cospicuo, che ovviamente rompeva tutte le definizioni, anche quella di crepuscolare. Moretti è un poeta in cui si respira tutto l’inizio del Ventesimo secolo, Pascoli e D’Annunzio innanzitutto. Inizio secolo che in realtà è una fine d’epoca, è una crisi, quella delle certezze borghesi e liberty, dell’ottimismo positivista della belle epoque che aveva costruito la Torre Eiffel e distrutto l’assoluto, con la sua stolta fiducia nell’assoluto della scienza e della ragione fine a se stessa. La prima stagione di Moretti comprende le poesie scritte circa dal 1905 al ’15 o poco più. Poi la vena sembra cessare, per passare nei decenni successivi alla prosa e tornare solo da vecchio alle poesie, peraltro con un’ultima sorprendente stagione. Le poesie di quel periodo hanno tutto il profumo dell’epoca, dell’Italietta con la sbornia calante del Risorgimento, con le incertezze politiche che si scatenano prima e dopo la Guerra Mondiale e l’appannamento della bimillenaria coscienza cristiana. Tutte cose che troviamo puntuali nella poesia di Moretti, assieme a quel tono malinconico, fanciullo, musicale e anche ironico dei sodali Gozzano, Palazzeschi, Govoni. Chi ama inseguire e ritrovare le atmosfere della storia e dei tempi, sarà accontentato dalla lettura della prima stagione di Moretti. Ma lo stile dei crepuscolari non fu vincente e non ebbe seguito: ha ragione Geno Pampaloni quando, contestando Federigo Tozzi afferma, proprio parlando di Moretti, che “lo svolgimento progrediente della nostra letteratura e ciò che si dice la ricerca letteraria hanno preso tutt’altra strada, in nuovi valori si sono affermati provenendo da tutt’altre direzioni”. Di lì a pochissimo il carro armato dell’Ermetismo avrebbe indicato la strada, tanto che oggi è normale scrivere come Montale o Ungaretti, ma sarebbe ridicolo, per un giovane poeta, adoperare lo stile di Moretti.
Eppure proprio Moretti poeta resiste. Più difficile che qualcuno prenda ormai in mano i suoi romanzi o le novelle, ma la poesia incuriosisce ancora i lettori. Intanto le due stagioni poetiche di Moretti non furono tanto lontane. Quello che dice un po’ sghignazzando Pietro Pancrazi (“Moretti poeta seppe l’arte di smettere a tempo”) è smentito. Lunga fu l’interruzione editoriale del poeta, che salta dagli anni Venti al ’65, ma non la scrittura. In una nota anteposta all’edizione del “Diario senza le date”, appunto del 1965, parlando proprio delle date, Moretti afferma che “si trovarono fra alcune agende, la prima delle quali è del 1926”. Insomma, non ha mai smesso di scrivere poesie. Ancora una volta, però, c’è molto di più. Basta sfogliare la raccolta maggiormente conosciuta, le “Poesie scritte col lapis” per accorgersi della ricchezza e persino della varietà di toni (altroché appiattimento crepuscolare!): i versi sono in genere brevi, la metrica elementare e di grande ritmo, persino nervosa a tratti, perciò modernissima, l’espressione chiara e immediata, che risolve prontamente ogni difficoltà di lettura. Sono poesie in cui la domanda di senso sgorga fresca e per niente estenuata, diversamente da quando accade a volte persino in Pascoli o nell’estetismo di D’Annunzio, che puntano quindi in alto e non desiderano, come dirà l’autore stesso in una poesia, essere quelle di un “poeta minore”. In esse emergono echi degli altri poeti, citazioni, parole precise (“solatìa”…) ma rielaborate a volte con ironia, altre con profondità e spessore, sempre con personalità da purosangue. Un giovane vi si dibatte, parlando preferibilmente con la sua anima la quale più avanti, nelle raccolte successive, diventerà addirittura la sua musa: al di là della crisi borghese, che pure c’è, vi troviamo perciò uno dei più originali colloqui con la propria anima della poesia italiana del Novecento, colloquio che influenzerà persino Giorgio Caproni, come indica una sua famosa poesia (“Anima mia, leggera/va’ a Livorno, ti prego”). La raccolta è tutta pervasa da una brama di partenza: probabilmente il verbo “andare” è uno dei più usati del libro e in effetti Moretti diventerà un grande viaggiatore, come ha documentato una mostra a Casa Moretti di alcuni anni fa. È sconfessata insomma l’aura provinciale e crepuscolare che, se c’è, non è esclusiva e non esaurisce la complessità e grandezza di Moretti poeta.